RICORDI DI VITA

 Giugno 2012 Presentazione del libro "Ricordi di Vita"





Giugno 2012 libro "Ricordi di Vita"





 1998 - dopo il pranzo al Ristorante da Fernando e Rosa 


Nella foto alcuni dei nati nel 1938

Racconti: "Ricordi di Vita"  di Luciano Zanelli



   1938 Classe di Ferro


Nel 1938 il  comune di Giuncugnano ha avuto un incremento demografico di 38 unità.   20 femmine  e 18 maschi. Questa generazione ha cominciato a conoscersi  e frequentarsi, in parte alle scuole elementari altri durante l’adolescenza, età in cui si comincia a girare i piccoli paesi sparsi qua e la, nella pittoresca  Garfagnana, in particolare durante i festeggiamenti di  sagre o santi patrono che in quei luoghi sono all’ordine del giorno. E come dice il proverbio: “ tutti i salmi finiscono in gloria”, dopo il sacro arriva il profano. Non appena la banda musica ripone  gli  strumenti,  c’e un attimo di silenzio, e giusto il tempo di dare  un’occhiata  agli stupendi panorami che fanno da cornice alla vallata,  e già si sentono le melodiose  note  di  una vecchia fisarmonica, suonata a orecchio da genuini  musicisti,  che  intonano,  tarantelle  e motivi del passato, ricreando  l’atmosfera  dei  tempi  ormai lontani. Era il preludio di una festa danzante, che immancabilmente finiva a mezzanotte. Le mamme  preoccupate e guardinghe, schierate ai lati della  piccola stanza, dove si svolgeva l’evento, osservavano  ogni  mossa,  leggevano  il labiale, lanciavano sguardi  taglienti  alle  figlie  se  ballavano  troppo strette, creando  nelle  stesse timore   e paura.  Era  una  lotta  per  potersi  scambiare qualche parola,  nonostante tutto, la serata  si riempiva di  gioia e di entusiasmo. Nascevano amori silenti, mai  confessati,  qualche piccolo flirt e tanta, tanta  amicizia. Cosi si sono conosciuti i ragazzi del trentotto. Ma il tempo è tiranno, e non ha dato loro lo spazio necessario per poter  ampliare  i  loro  discorsi  e renderli  più  chiari e più  concreti.  Ogni singolo ha intrapreso la strada che il destino gli ha riservato. Cito qualche  nome  che mi è rimasto impresso nella mente per  episodi che mi hanno particolarmente coinvolto.  senza togliere nulla agli altri che sono presenti sempre nella mente e nel cuore. Primo Pighini, compagno di banco alle elementari, scomparsoancora  adolescente, Domenico il falegname, partito per Australia, Denny,  negli stati uniti d’America, Battista, vicino di casa e compagno di giochi quotidiani, si è trasferito a Lucca, intraprendendo una brillante carriera nel campo della  sartoria.  Io stesso, ho  intrapreso la carriera militare, arruolandomi  nell’Arma dei Carabinieri. Le ragazze,  seguendo il cuore, si sono trasferite :  Albana e  Isella  a Pistoia,  pittoresca città  toscana,  Anna, nella città della torre pendente. Rita, Lia, Clara, Farida sono rimaste  nel luogo di nascita  dove si sono create  la loro famiglia. Il tempo è trascorso in fretta, ma il ricordo è rimasto vivo nella mente, in particolare quella di Robertino Danti che dopo aver completato gli studi con i padri carmelitani, si è impiegato al comune. Superando non poche difficoltà e usando la pazienza certosina, è riuscito, dopo sessant’anni, a rimettere insieme il gruppo dei trentottini. Infatti, l’8 agosto 1998 il sogno si è realizzato. Nella sala della trattoria “da Fernando e Rosa” a magliano, come un araldo ha srotolato la pergamena per fare l’appello ai convenuti. E’ stato un successo, in ventuno hanno risposto presente, altri rintracciati ma assenti  per circostanze varie. Emozioni tra i presenti, sguardi increduli pieni di curiosità  volti  trasformati, quasi irriconoscibili,  i capelli  brizzolati,  qualche  piccola  ruga  si affaccia all’orizzonte.   Il tempo è stato impietoso non ha risparmiato nessuno.  Nel gruppo, però, passati i primi momenti di smarrimento è ritornata l’allegria e la  festosità  di  quelle serate allietate dal suono della  vecchia  fisarmonica. Ti ricordi? C’èri anche te quella volta? E cosi ogni cinque anni si rievocava la trascorsa e  spensierata gioventù. Le domande e la curiosità di conoscere il passato e saperne di più del presente, erano tante.  Molti sono stati più fortunati, altri un po’ meno, ma questa è la sorte che ci assegna il destino. Anche la stampa locale ha dato risalto  all’evento, stimolata dal promotore.  Art. e foto. Alle riunioni che si sono succedute, era un rituale, il capoclasse Robertino, elenco alla mano faceva l’appello, c’èra sempre un attimo di silenzio, poi la bella notizia, non è potuto venire per motivi di lavoro, il volto dei presenti riacquistava il sorriso. Purtroppo, spesso la frase non era  questa e allora la tristezza si leggeva negli occhi di tutti e una lacrima scendeva  silenziosa,  un forte  e  prolungato  applauso  echeggiava nell’aria. L’ultimo incontro è avvenuto il 24 agosto 2008, che come al solito dopo la funzione religiosa, celebrata nella chiesa della madonna di Gragna, da Don Marino Salotti, il gruppo si è trasferito   alla locanda “Il Castagno”, nel vicino paese di Ponteccio. Terminato il lauto pranzo, il solito arrivederci e l’appuntamento al 2010.  Quest’ultima data purtroppo non è  stata celebrata.  La prematura scomparsa di colui che con tanto entusiasmo, impegno e non poco fatica, aveva riunito, i nati nel comune di Giuncugnano nel 1938, si è nuovamente sgretolato. Ciao Roberto.  Il tuo lavoro è stato un successo. Sono certo  che ogn’uno di noi ricorderà sempre l’emozione e la gioia, che per merito tuo,  ha  provato nel riabbracciare i vecchi compagni. Nel dirti immensamente grazie, e ricordandoti sempre con profondo affetto, ti giunga  un  caloroso  applauso  da tutti noi, ancora presenti  su questa terra. E da grande organizzatore come sei, prepara la prossima riunione li da te.   Questa volta ci saremo tutti.
Roberto Danti


                            
La Vita 
Come l'acqua corre e mai si ferma

Seduto sull’argine del torrente osservo l’acqua che corre veloce. Un tronco gigantesco, galleggia  sulla superficie seguendo la corrente come una foglia secca. Lui, il vecchio Titano.  Ha affrontato tempeste, venti, neve e ghiaccio uscendo sempre vincitore, ora è lì immobile, quasi impaurito, pronto a seguire, senza opporre resistenza, il volere dell’acqua, che implacabile lo trascina e si allontana.
Vedo nella mia immagine riflessa, un po’ distorta, tutto il percorso della mia vita.
Il tempo passa senza far rumore. È come l’acqua, corre, sempre corre e mai si arresta. Scandisce i tempi senza distinzione, lasciando a ognuno libero il pensiero. E quando si è convinti di esser vincitori, e di poter dire al mondo, “nulla ti devo” ecco l’oste che osserva, e con gran stile, fa un cenno al cameriere e manda il conto.   

     

          Così era la vita

 La cosa potrà sembrare strana ma vi giuro è la realtà. Alzarsi prima del canto del gallo, darsi una lavatina agli occhi, infilarsi le scarpe e velocemente prendere lo zainetto preparato prima di andare a dormire, contenente: “Un pezzetto di pane, un uovo, o una frittata con cipolla o patate; molte volte un pezzetto di lardo di maiale, qualche noce o una mela”. Questi erano gli alimenti che passava il convento negli anni cinquanta. Fuori dalla porta di casa, l’amico e compagno di lavoro Oreste, già in completo assetto da combattimento, aspettava fumandosi una sigaretta di trinciato forte. In quel preciso momento arrivava il primo canto del gallo, erano le cinque. Con gli occhi ancora pieni di sonno, si percorrevano i lunghi e sconnessi viottoli che portavano al paese di Ponteccio dove c’era il punto di raduno e precisamente nell’aia della Ida e Pietro Nobili, gestori di un piccolo bar tabaccheria. Era l’ultimo punto dove si poteva fare rifornimento di ciò che mancava. Nel frangente, il capo operaio, Fabiani Giuseppe, approfittava del momento di sosta, e faceva l’appello. Subito dopo, lungo gli erti sentieri che si inerpicavano lungo i pendii che portavano sulla vetta della montagna, una silenziosa e infreddolita fila di persone, con passo cadenzato iniziava a salire. Il sole cominciava ad illuminare le cime più altre delle alpi apuane. Nella vallata sottostante, si vedevano i pennacchi di fumo che uscivano dai camini delle case, le campane della vicina Chiesa di Magliano, invitavano i fedeli alla Messa mattutina. Il risveglio era totale. La lunga e faticosa giornata per gli abitanti di quei pittoreschi borghi era cominciata. Solo quando il sole illuminerà le cime del versante opposto dell’Appennino e nell’aria echeggerà il suono dell’Ave Maria, ogn’uno farà rientro nelle proprie case, dove il calore e l’accoglienza dei propri cari, gli facevano dimenticare la fatica del giorno passato.              





Il Buffardello

Leggende e credenze popolari

Le tradizioni, le credenze popolari, che i nostri predecessori, hanno tramandato, fino ai tempi nostri, sono argomento di discussione, specialmente durante le lunghe serate invernali, davanti a un ceppo acceso, un fiasco di buon vino e l’immancabile padellata di caldarroste. 
Tutti hanno da raccontare la loro storia, un loro vissuto o un sentito dire. Nessuno, però, è testimone di fatti e altri eventi particolari. Si racconta che, in varie località della Garfagnana, ma anche nella vicina Lunigiana, durante le notti di luna piena, si verificano strani fenomeni: raduni di Streghe che compiono riti magici, folletti e altri personaggi dell’immaginario popolare che rappresentano la cultura alternativa al sacro, condannata come superstiziosa dalla Chiesa.
C’è chi asserisce di aver visto figure strane, chi ha sentito dei rumori, altri hanno visto scie luminose e chi più ne ha più ne metta. Sempre per sentito dire. Si. Così raccontava mio padre, che a sua volta l’aveva sentito dal nonno  e cosi via, perciò il racconto è da tenere in considerazione, come la favola di Cenerentola o di Cappuccetto Rosso.
Nel comprensorio apuano una figura che ha sempre incuriosito e creato mistero intorno al suo personaggio, alla sua presenza velata ma attiva, è il Buffardello o Baffardello. Un folletto, spesso identificato e confuso con quello della tradizione lucchese, il Linchetto, che è incapace di fare del male. Molti giurano di averlo incontrato nei  boschi, nei dintorni di centri abitati e nelle campagne della Garfagnana. 
Ha le sembianze di uno gnomo, basso di statura, barba lunga e bianca, il naso schiacciato e con la punta a pomodoro, porta in testa un cappello rosso di forma conica, con un pon pon, che dondola lungo la schiena. Ha degli stivali che arrivano alle ginocchia, con la punta ripiegata all’insù. Sulla stessa un campanello che ad ogni passo emette un rumore infernale.           
Il suo regno è la foresta, solo di notte entra nei centri abitati, in particolare negli ovili. Si diverte a intrecciare la criniera ai cavalli, la coda alle mucche, sposta il fieno da una mangiatoia all’altra a secondo della simpatia che ha nei confronti di questo o quell’altro animale.
Quando invece entra in camera da letto, si diverte a infastidire chi dorme, tirando le coperte, facendogli il solletico, nascondendo oggetti. Più in generale intreccia la lana e le matasse di filo. Fa  un tale scompiglio degno del nome che porta. Molte volte in campagna crea dei vortici, portando in aria foglie secche, pagliuzze e piccoli ramoscelli, lasciando stupiti e increduli gli ignari osservatori. È un folletto veramente dispettoso. In Garfagnana, quando si vede una persona scapigliata, si dice: “Hai incontrato il Baffardello”?
Mia nonna diceva che per allontanarlo, bisognava mettere appeso alla porta di casa un ramo di ginepro, e nelle altre stanze, in particolare nei corridoi, molte cazzeruole piene di fagioli o di lupini. Perché il Buffardello, per una strana alchimia, per entrare nei locali, è costretto a contare i semi e tutto ciò che trova lungo il suo percorso, ma, purtroppo, essendo analfabeta, si indispettisce e scappa.
Nella vicina Lunigiana invece, si narra che la sua indole sia molto più cattiva e perversa, la sua presenza nelle abitazioni è solo spinta dalla malvagità di voler soffocare i neonati. Però fortunatamente non ci riesce perché la sua mano è bucata e anche perché a proteggere i più piccoli c’è la benefica figura dell’angelo custode.
Queste leggende si sono tramandate di padre in figlio, finché lo sviluppo della tecnica, l’espansione del commercio e l’alfabetizzazione, hanno portato in quei piccoli centri montani la modernità, dando vita a una nuova società, che ben presto ha cambiato il corso della storia. I ricordi, le tradizioni, le credenze popolari, sono scomparse purtroppo come tutti coloro che  avevano tenuto acceso il ricordo con i  loro fantastici  racconti.  


                                             La Raccolta del Formenton


Tra i ricordi dell’infanzia lasciati nel piccolo paesino di Castelletto, ci sono le serate passate all’aria aperte nell’aia, mentre veniva sfogliato il granturco. “Formenton”  così viene chiamato in dialetto. Era un rituale. Dopo cena gli anziani scendevano nell’aia e formavano un cerchio intorno al mucchio di pannocchie che dovevano essere sfogliate per permettere al sole di asciugarle e farle essiccare così che i gialli chicchi che formavano le fila asimmetriche nella pannocchia, fossero pronti per essere portati al mulino e ricavarne ottima farina per poi trasformarla in saporita polenta, che in alternativa a quella di neccio, fatta con farina di castagne, erano il pane quotidiano, che permetteva a gli abitanti della valle garfagnina, di vivere dignitosamente. Intanto nell’aia il cerchio si allargava, arrivavano aiuti di altri   paesani, che si univano al gruppo di lavoro, sapendo che poi sarebbero stati ricambiati. Ma la vera partecipazione era quella di stare un paio di ore in compagnia e scambiare qualche parola, raccontare una storia, o ascoltarla, c’era sempre qualcuno che ne sapeva una nuova. Spesso venivano intonati vecchi canti di montagna. Ne ricordo uno che diceva: “Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna e vada ben che non si bagna, lo voglio regalar…Era anche l’occasione per avvicinarsi a corteggiare le ragazze, quale altro modo, se non fingendosi partecipi  al  lavoro, si  poteva  trovare  per  scambiarsi qualche occhiatina e qualche sorrisetto. Le serate passavano in un batter d’occhio. Noi ragazzi ascoltavamo il chiacchiericcio da sotto le foglie tolte alle pannocchie, che usavamo come coperte. Ma la nostra felicità era la trasgressione di rimanere fuori casa fino a mezzanotte, in certe sere limpide sembrava di stare là in mezzo alla volta celeste, si potevano vedere le varie costellazioni, il carro, l’orsa maggiore, la via lattea. Era importante localizzare la stella polare, Sirio e altre costellazioni.  Nel periodo di luna piena era uno spettacolo vederla sbucare da dietro il monte, con quel faccione imponente, dava una certa suggestione. Ogni tanto si sentiva il canto di qualche uccello notturno che, attratto dalla luce della piccola lampadina che illuminava l’angolo di lavoro, passava osservando incuriosito. Quelle indimenticabili serate per noi erano un diversivo, una grande trasgressione. Si perché restare alzati fino a mezzanotte era il massimo della felicità, anche se poi al mattino era dura svegliarsi presto per raggiungere la scuola. Non è facile dimenticare quello che si imprime nella mente quando si è bambini, in particolare se  gli strumenti del gioco, sono gli stessi attrezzi di uso quotidiano nell’ambito della famiglia. Si è piccoli, ma ti fanno sentire grande e importante, peraltro, l’infanzia in quel tempo era un passaggio molto veloce. Ti accorgevi presto di essere cresciuto, anche se in effetti eri ancora un bambino, con la responsabilità di un uomo, per questo restano in mente tutte quelle piccole cose che non hai fatto ma ti sarebbe piaciuto fare come tutti i bambini del mondo. Voglio citare una piccola poesia in dialetto garfagnino del poeta Guglielmo Leva, nella quale ho trovato il vero motivo del morboso attaccamento alla mia terra.


… Io vedo il mi paese, il Pisanin,
il mi fiume, voaltri, la mi Tina
come mi salutò quella matina
quand’è partitti per il mi destin.
Sogno Argegna, Curfin, la Capriola,
le mi vacche che mangino in del prato,
il ciocco che sconsuma nel metato
e tutto è bello, come in d’una fola!
e, ‘gni mattina, ciò la smania addosso
perché sta mostra d’una Garfagnana
è cusì bella ano s’edè luntana
che mi sforzo a scordalla, ma non posso.




LA NOTTE DI SAN LORENZO
Tra il Sogno e la Realtà

 Una  serata molto calda, senza un alito di vento,  mi sto annoiando. Guardo fuori dalla finestra, vedo in lontananza le luci delle barche dei pescatori che stanno gettando le reti, c’è una luna bellissima. Esco e vado verso la spiaggia. Fatti pochi passi  incontro un carissimo amico che non  vedevo da circa trent’anni. E’ stata una coincidenza casuale e fortunata. Enrico. Mi guarda e senza dire una parola ci abbracciamo. Solo un miracolo ci ha fatti rincontrare. Ci sediamo sulla terrazza dello stabilimento balneare "il Capriccio" e ordiniamo un abbondante gelato. Che combinazione. Mamma mia, mi sembra un secolo da quando ci siamo salutati alla stazione, tu partivi per Livorno, eri così entusiasta di esse stato trasferito al centro sportivo della Folgore. Si ricordo. Era  agosto. Per me, è  sempre stato un mese  fatale. Pensa circa quindici anni fa, proprio  il dieci agosto ero andato al compleanno di una amico, forse lo ricordi! Gerardo. Certo che lo ricordo. Beh ora ti  racconto: era la sera di San Lorenzo e sulla spiaggia di Sestri Levante: “Mille occhi puntati al cielo. Mille cuori palpitanti. Mille mani strette, che in silenzio aspettano la scia luminosa di una stella cadente. Un desiderio già pronto, e ripetuto mentalmente nell’attesa dell'evento. Le stelle brillano come gocce di rugiada colpite dai raggi del sole. La via lattea si evidenzia  con particolare candore. Il cuore pulsa, le mani  si stringono e lo sguardo fissa  l’orizzonte. L’ansia si legge  nei volti, è così apparente che sembra di toccarla con le mani. Un sospiro, uno sguardo. Uffa…ma perché le stelle si fanno desiderare cosi tanto? E’ ancora presto, dice Guido, anche lui non ne può  più, è  frenetico guarda  il cielo e l’orologio, accarezza  i capelli di Marta, la sua compagna. L’amicizia tra me e Guido è ultra decennale. Gli ho  insegnato i segreti del mestiere. Sono più grande di lui, ma nonostante la differenza di età abbiamo stretto una profonda amicizia. Anche Marta mi conosce  bene quando ho cominciato ad allenare nella palestra del papà, era ancora una bambina. Quella sera, mi trovavo sulla spiaggia di Sestri Levante  per puro caso. Dopo la separazione da mai moglie Elisabetta, evito di frequentare questa località, potrei incontrarla e sicuramente mi farebbe molto male. Anche se la separazione è stata consensuale. Però il 10 agosto è il compleanno di Gerardo, un grande amico e compagno di avventure sportive. Mi  ha  invitato e non ho potuto  dire di no. Durante i festeggiamenti ho incontrato una ragazza molto carina, una ciocca di capelli scuri gli scendeva sulla fronte, una ragazza affascinante, misteriosa, i suoi occhi nascondevano tanta tristezza. 
Gerardo, si è accorto che tra noi era nata una palese complicità. Ha cercato di farmi capire qualcosa ma non poteva esprimersi, eravamo tutti lì intorno al tavolo, era impossibile esternare pareri o consigli senza essere ascoltati da tutti. Guido e Marta conoscevano  Ketì , ma solo di vista. E’ già mezzanotte, di stelle cadenti nemmeno la traccia, ma ormai le ansie e le palpitazioni si sono spostate su altri argomenti, come non poteva  essere altrimenti. La serata  è caldissima, il mare calmo come una lastra di cristallo, solo un  lieve sciabordio causato da una barca che lentamente scivola  nello specchio d’acqua usando i remi, perché la vela senza vento non si muove. Nel silenzio, Ketì mi stringe la mano e si avvicina dandomi un bacio. Si un bacio. Un bacio vero..e poi mi dice: non l’hai vista? Era stupenda aveva una scia luminosa lunghissima, ma come hai fotto a non vederla. Rimango sorpreso, e sinceramente anche un po’ imbarazzato, perché durante il giorno, c’era stata molta cordialità e sguardi  maliziosi e intriganti  ma null’altro, perciò quel bacio, è stato un fulmine a ciel sereno. No, non l’ho vista. Ma il tuo gesto è stato più esaustivo della stella cadente. Mi ha sorriso facendo un smorfia.  Intanto gli sguardi sono tornati  ad osservare il cielo. Questa volta non c’è stata molta attesa. Decine di scie luminose si sono intrecciate nella volta celeste, appagando l’attesa degli spettatori, che non hanno tardato a rispondere con un lungo applauso. Meno male, esclama Marta.  La nostra perseveranza è stata premiata. Si, veramente una bella serata. Era tanto che non provavo una cosi forte emozione. Sono contento. Allungo la mano per stringere quella di Katì, ma non la trovo. Forse sta salutando qualcuno. Ah.. Gerardo che si trovava  a poca distanza, ma neanche lì la vedo. Gerardo hai visto  Ketì ? No, perché? Stava qui ed è sparita. Mettendomi una mano sulla spalla e guardandomi fisso negli occhi. Fa una lunga pausa  e dice: lascia perdere è meglio cosi. Ketì è come una stella cadente, appare e scompare con troppa facilità. Quella notte durante il viaggio di ritorno ho riflettuto molto, le parole di Gerardo, hanno suscitato in me, curiosità e anche un pizzico di rabbia.  Meno male c’è un Autogrill. Ora mi fermo, perché il sonno mi assale. Entro, ordino un caffè, e mentre sto assaporandolo nello specchio vedo l'immagine di Ketì. Per poco non lascio cadere la tazzina, quando rialzo gli occhi non la vedo più. Mamma mia… stò  veramente dormendo. Mi  dirigo veloce verso i bagni  metto la testa sotto il rubinetto e subito riacquisto la sensibilità.  Meno male, ora sto meglio. Sognavo ad occhi aperti.  Intanto, l’orizzonte si è  fatto rossastro, nel cielo già si intravede la luce dell’alba.  La lunga notte è giunta al termine.  Un nuovo giorno sta sorgendo, lasciando dietro di sé la scia di speranza, dei giuramenti e le promesse. La  malinconia, e la tristezza delle delusioni, che la  notte di San Lorenzo ha lasciato dietro di se”. Mi dispiace Enrico, non sapevo che ti eri separato, ma cosa vuoi, oggi sono cose ormai all’ordine del giorno. Sicuramente si. Pensa che da allora è già la seconda convivenza. Lo sguardo di Enrico si focalizza sulla spiaggia, ed esclama. Guarda, i tempi passano ma le tradizioni rimangono. E con un sincronismo perfetto esclamiamo: Viva la gioventù che sogna, con l’augurio che i sogni diventino realtà. Una salma di fuochi artificiali interrompe il dialogo, riempiendo il cielo di scie luminose e colorate e un lungo applauso accompagna le note del "Vecchio Frac" suonate dal complesso musicale dello stabilimento balneare.                       


                       
La vigilia di Natale a Castelletto

Un giorno come tanti, freddo umido, con la nebbia che non permette di vedere a un metro di distanza; l’odore acre del fumo dei seccatoi delle castagne rende l’atmosfera cupa e inquietante.
Ma a Castelletto il 24 dicembre tutto si trasforma. In ogni casa, anche nella più umile, vicino al camino c’è un ramo di ginepro e un ciuffo di canugiolo. Sulla tavola due, tre bottiglie: Anice, Rum e l’immancabile Sassolino, un liquore molto dolce preferito dalle donne. Nel focolare la classica caffettiera (il Bricco) in attesa dell’evento.
“All’Ave Maria” il paesino si comincia a muovere, viene bruciato il ginepro con il canugiolo, e questi creano un’atmosfera incantata nonostante la nebbia, il fumo dei seccatoi, il freddo e magari anche la neve, tutto si riscalda. L’aria diventa profumata, sì profumata d’incenso, perché il ginepro e il canugiolo bruciati danno questa fragranza, che piano piano si propagava in tutta la vallata.
Poi gli abitanti di Castelletto iniziavano a scambiarsi le visite, e in questa circostanza la tradizione  vuole che ci sia l’offerta di un caffè corretto, “il punch” con anice o rum. Questa pratica andava avanti per tutta la serata e non c’era casa che non venisse visitata da tutti. I caffè corretti erano diventati tanti, perciò alla messa di mezzanotte …  il freddo non esiste, l’alcool era sovrano, però da buoni cristiani tutti in chiesa: magari non sapevano perché ma l’usanza era quella.
Il giorno di Natale il paese dorme. Solo qualche anziano mosso dal rimorso sentendo il richiamo degli animali affamati si alza scuote la testa, poi si convince dicendo: avete ragione è Natale anche per voi.    
Certo c’è da smaltire la sbronza della sera prima. Vi assicuro che quelle persone non sono ubriaconi, eccetto i soliti, ma il resto hanno bevuto caffè e liquore solo per la tradizione perché la vigilia di Natale è sempre stata festeggiata così! In più chi durante l’anno, magari, per piccole incomprensioni, non parla con parenti, vicini di casa o conoscenti, la vigilia di Natale dimenticava tutto e rifacevano la pace.
Io ricordo con tanta nostalgia quelle serate. Il paese dava l’impressione di essere illuminato a giorno. Le porte e le finestre sempre con gli scuri chiuse non appena calava la sera, la vigilia di Natale rimanevano aperti. Poi a Mezzanotte sentire il suono delle campane, era un avvenimento. Che emozione quei rintocchi! L’eco si diffondeva in tutta la vallata, rendendo il buio della notte santa carico di mistero. Era il messaggio di gioia e di speranza che annunciava a tutti la nascita del Salvatore del mondo. La chiesa era gremita, mai vista cosi piena. E quando la funzione terminava, c’era l’attesa lode a Gesù Bambino: l’immancabile canto: “Tu Scendi dalle Stelle”. Potete immaginare le stonature. Però tutti dovevano partecipare altrimenti che Natale era? E poi tutti a casa.
I genitori quella sera, ti permettevano di essere grande e assaggiare magari un solo caffè con l’anice. “È più leggero –  diceva mia madre –, poi facendo una piccola riflessione, continuava, ormai anche lui è grande! E poi, e poi..è la vigilia di Natale, perciò tutto è permesso”.
Sono trascorsi cinquantaquattro anni le tradizioni sono scomparse, quasi nessuno le ricorda. Anzi no! Nessuno le ricorda, perché quelli delle tradizioni ormai non ci sono più. Anche il paese è cambiato non si sente più l’odore dell’incenso, anche l’odore acre dei seccatoi è scomparso. L’incantesimo e l’atmosfera degli eventi sono finiti. Si è dissolto tutto nel tempo. In quei paesi c’è rimasta solo tanta tristezza e tanta nostalgia di chi come me, ancora ricorda tradizioni e persone scomparse.
Brrrrr, svegliaaaa! Siamo nel 2011 il passato è lontano, le tradizioni lasciano l’eco, il ricordo e forse anche un piccolo rimpianto ma noi non possiamo fermare il mondo dobbiamo saperci inserire nel contesto e nell’evoluzione dei tempi. I nostri figli, e i figli dei nostri figli, sicuramente avranno un futuro migliore, e sono certo che se sarà tale in piccola parte è anche per merito nostro e grazie a quelle tradizioni e a quei metodi arcaici e sicuramente deprecabili, duri e primitivi, ma efficaci.
Vorrei far riflettere i giovani di oggi, i quali inconsciamente si lasciano trascinare da individui senza scrupoli o affascinare a dismisura dal progresso e dalla modernità, che la vita, con le sue tradizioni, è un dono prezioso e va gelosamente custodito.          







L’Albero della Vita

sotto l’albero di ciliegio, dove da bambino passavo le giornate dondolandomi su una rude altalena cerco di ricostruire, nei cassetti della memoria, l’infanzia, l’adolescenza, i primi passi verso la giovinezza, i primi approcci con la vita. È una lunga lista che scorre nella mente, la lontananza da quel luogo non ha cancellato nulla. Anzi, rifacendo il percorso, tutto è come allora. Vedo la mia immagine dondolante, dall’angolo  della  casa  sbuca  la figura di mio nonno, che sorridendo dice: “Ancora non sei stanco, beata gioventù”!
Si siede  vicino e mi racconta  delle storie fantastiche, sicuramente inventate. A me piacevano tanto.  - “Nonno, perché dovrei smettere di dondolarmi? Mi piace moltissimo”.
- “Lo so nipote mio. Continua, la vita ti sorride”.
- “Nonno, vuoi fare un giretto sull’altalena”?
- “No grazie. Non voglio togliere nemmeno un attimo al tuo divertimento”.
Sorrideva e scuoteva la testa.
“Nonno, perché non posso restare qui con te”? Una voce stridula e piena di entusiasmo risveglia il mio torpore. Ho un attimo di smarrimento. Poi, vedo sbucare dall’angolo della casa la chioma bionda del mio nipotino, Flavio, che correndo si avvicina, mi tende le braccia e si avvinghia al mio collo.
- “Nonno, sono venuto a trovarti qui a casa mia dove abiti te, sei contento”?
- “Certamente tu sei il benvenuto. Sei il mio cucciolone”.
- “Grazie. Nonno voglio l’altalena. Nonna mi ha detto che anche te avevi l’altalena quando io non c’ero”.
- “E’ vero. Ora la preparo subito”.
Pochi minuti dopo gli occhi del mio nipotino scintillano dalla gioia. Comincia a dondolare.
- “Nonno, mi spingi un po’ così vado più forte”?
- “Certo tesoro”!
- “Nonno, mi racconti una storia così mi diverto ancora di più”.
- “Molto volentieri piccolo mio”.
- “Nonno, ti faccio vedere le foto che papà ha fatto al mare”.
- “Le ho viste, sono molto belle”.
- “Questo sono io dentro l’acqua, vedi come nuoto? Nonno, devi stare attento lì c’è molta acqua se non nuoti, rischi di affogare, o di bere tanta acqua. Nonno, lo sai che l’acqua del mare è salata”?
- “Si, si. Lo so”. 
- “Nonno, perché tu sai tutto”?
- “Io sono vecchiotto e la vita mi ha insegnato tante cose belle, altre un po’ meno, ma apprezzabili. E poi ho visto anche tante cose brutte”.
- “Nonno, tu non sei vecchio e nemmeno la nonna. Siete solo un po’ più grandi”. 
- “Hai proprio ragione, è così”.
- “Nonno, senti, perché non vieni al mare con me, ti insegno a nuotare. Poi, siccome  al mare  ci sono  tanti  pesciolini, e io non riesco a prenderli, tu mi potresti  aiutare. Vieni!  Il posto per dormire c’è. Io ho una cameretta molto spaziosa. Ti prego vieni. Sai mi piace tanto sentire le storie che racconti”.
- “Va bene ci penso”.
- “Nonno io non voglio diventare grande. Non voglio andare a scuola, voglio restare  qui con te e con la nonna e quando comincerete a diventare  ancora  più  grandi,  io andrò a lavorare come papà e vi comprerò tante cose belle”.
Gli accarezzo i capelli, dandogli una tiratina al naso.
- “Sono fiero di te, e anche la nonna vedrai com’è contenta. Però, ora devi andare, la mamma ti sta chiamando”.
Dentro di me sento crescere una grande tristezza. Lo abbraccio forte e gli dò un bacio sulla fronte. - - “Non voglio andar via nonno, voglio restare qui”.
- “Fai il bravo, sei un ometto, ubbidisci. Vai a salutare la nonna. Papà ti aspetta”.
Flavio se ne va a testa bassa piagnucolando. Poi sento il rumore della macchina di Fabrizio che si allontana. Vai amore mio. Vai. L’angelo custode ti protegga.
È la vita che scorre. Forse troppo in fretta! Ma questa è la velocità dell’universo, del  ciclo biologico  che Dio  ha dato a tutte le creature. Ciao cucciolone di nonno.
Ora la cucciolata è aumentata. Sono arrivati Lorenzo e Riccardo, due bambolotti che  solo a guardargli ti riempiono il cuore di gioia. La felicità è immensa. Stanno  crescendo alla velocità  della luce. Cercano già l’equilibrio per muovere i primi passi, scandiscono un po’ confusamente le prime parole. Presto il miracolo della natura sarà completato, l’albero della vita continua la sua ramificazione.
Anche il ciliegio dovrà essere più forte e paziente, nonostante la sua veneranda età.  Non si può negare la disponibilità di un ramo a coloro che danno la continuità della vita.
 Sono passati 20 mesi, e l’albero della vita, continua ad allietare il gruppo dei tre monelli, il 28 agosto sul far della sera è arrivata Elena, una bellissima bambina piena di energia e vigore, e presto sarà in grado, anche se in  minoranza, di affiancare l’allegra brigata e perché no, visto che il mondo è tutto al femminile, assumerne il comando.     
 I fantastici quattro: Flavio - Lorenzo - Riccardo e Elena



La tempesta dei ricordo
La realtà è un sogno? O … viceversa?

Il cielo si sta oscurando, grandi colonne di nuvole grigie si levano all’orizzonte: è il preludio della fine dell’estate. Il sole che fino a ieri dominava la scena sembra impotente di fronte allo sconvolgimento meteorologico che si è creato in breve tempo. Tutto si sta trasformando, tutto diventa cupo e pieno di tristezza.
Addio tramonti colorati, ammirati da mille occhi stupiti, da amanti che si sono giurati eterno amore mentre il sole si immergeva nell’orizzonte. Un vortice di nuvole scure e un continuo lampeggiare, dà l’impressione di assistere a una battaglia navale dell’ultimo conflitto mondiale, il rimbombante crepitio dei tuoni e il profondo rumore del mare crea tristezza, angoscia e paura.
Anche Umberto, il proprietario dello stabilimento balneare, si è precipitato sulla spiaggia per chiudere gli ombrelloni e le sedie a sdraio in previsione dell’imminente temporale. Poco più in là c’è Concetta la moglie di Pasqualino il pescatore che aspetta, con ansia e preoccupazione, il suo rientro dalla battuta di pesca. Un gabbiano, incurante di quanto sta avvenendo, volteggia planando sulle onde già minacciose con la speranza di sorprendere qualche preda prima di ritirarsi nella vicina palude. L’odore della terra bagnata e le prime gocce d’acqua, precedono di poco il fragore e la violenza della tempesta che si avvicina.
È il momento di rientrare in casa e osservare da dietro i vetri ciò che accade. È uno spettacolo inquietante, la forza del vento piega le cime degli alberi contorcendoli come fuscelli, l’acqua mista a grandine si abbatte sul terreno con violenza, trasformando la strada in un fiume in piena. Mi siedo, e continuo a vedere le immagini riflesse nello specchio situato sul mobile della sala.  Pensavo fosse il solito temporale estivo e invece lo spettacolo continua senza interruzione, anzi, a giudicare dal frastuono, sembra stia peggiorando. Il mare si è riempito di bianchi e spumeggianti marosi che con violenza si infrangono sulla spiaggia. Sta calando la sera. Nel buio il rumore si amplifica e si vedono con maggior luminosità le scie che i fulmini creano nel turbine delle correnti. In lontananza tra un bagliore e l’altro si scorge il fascio di luce che il faro del porto emette a intermittenza in ogni direzione. E’ il segnale che ogni marinaio spera di vedere specialmente nelle situazioni complicate e di maggior tensione. E’ proprio la luce del faro che conforta e rassicura chi ha la sventura di trovarsi in balia delle onde.
La stanchezza mi assale e il frastuono dei tuoni concilia il sonno. Infatti, come un bambino cullato dalla mamma mi addormento. Entro nel mondo dei sogni. Centinai di immagini mi passano davanti rivedo il mio passato, tanti amici, tante persone care è una giostra che non si ferma. Vedo un treno che si allontana, le montagne che si appiattiscono e poi scompaiono, grandi pianure, immense città con tanta gente che corre. Non riesco più a seguire ciò che sta succedendo. L’immagine cambia mi appare un bosco, una campagna verde e rigogliosa, un castagneto con tante ginestre fiorite, sento in lontananza il canto del cuculo, un uccello migratore che in quei luoghi va solo a riprodursi. 
In un angolo di un prato, seduto su un cumolo di erba secca un ragazzo con la testa poggiata sulla mano destra, sorretta a sua volta da un rude bastone di legno,con  pantaloni corti, malridotti, scarpe consumate, capelli scuri, lunghi, con un ciuffo che scende fino a coprirgli la fronte. Il suo sguardo è intenso, profondo, pieno di mistero, sulle labbra un cenno di sorriso, mi guarda e   con voce assai timida e lo sguardo rivolto a terra, dice: “Ah! Sei tornato”?
Gli sorrido e cerco di capire la domanda.
“Ciao, sono qui di passaggio. Come ti chiami? Cosa fai”?  
C’è un momento di silenzio, poi mi guarda dal basso in alto, increspa la fronte e ancora abbassando lo sguardo, tira su le spalle e con voce ferma mi dice: “Non ti ricordi”?
“No”! 
“Guarda là”.
Giro lo sguardo e rimango immobile, allibito. Tra le fronde di una grossa quercia, in uno schermo gigante passano le immagini della mia vita, impassibile, incredulo, con grande stupore le osservo. Tutto è perfetto ogni tassello è al suo posto: infanzia, adolescenza, giovinezza, amori, tristezze, gioie, ambizioni.
Ma è diabolico … “Chi sei”? E lui con voce alterata esclama: “Smettila, ora basta. Ascolta e ringrazia Dio. Vedi quell’orizzonte? Lo Ricordi”?
Si ferma lì. Lì dove anche gli alberi non crescono, lì dove la prima neve imbianca la cima e annuncia che l’inverno è vicino, lì dove il vento soffia perenne, lì dove le nuvole si divertono a coprire e scoprire le cime dei monti.
“Hai dimenticato il duro lavoro, le lunghe camminate per raggiungerlo? Hai dimenticato quel fazzoletto a scacchi con dentro un pezzetto di pane secco e un pezzetto di cioccolato, quello di due colori, bianco e marrone, oppure una frittatina, e nelle giornate più fortunate, una pera o una mela”?
“Si ma…”
“Lasciami finire. Ti sei dimenticato la Maiella, la teleferica da smontare, era la prima volta che ti allontanavi per lavoro senza una lira in tasca, e il vizietto delle sigarette già ce lo avevi? Per fortuna c’èra il tuo amico, Oreste, che ogni tanto ti faceva fare una sigaretta. Si allora le sigarette si costruivano da soli. Scusa ma ti dovevo dire tutto, altrimenti non riuscivo a darmi pace. Sapessi quanto sono contento di vederti, e dirti bravo. Lo so è stata dura ma ce l’hai fatta. Pensavo di essere stato dimenticato qui su questo mucchio d’erba.  Sei ostinato, testone, e anche dopo anni non riesci a dimenticare questo lembo di terra”.
“Hai perfettamente regione non è facile dimenticare questa meravigliosa vallata, è un paradiso, è selvaggia, solitaria, aspra, piena di difetti ma questa gente che ancora ci vive è piena di gioia e tanta, tanta ospitalità. Si, senza dubbio è come dici te, però ora dammi la mano e portami con te”.     
Un forte rumore interrompe il sogno meraviglioso. È il temporale che ancora imperversa nella zona. Incredulo, smarrito cerco di capire cosa sia successo, la realtà è il sogno o…viceversa? Passato il primo momento di stordimento mi rendo conto, e un brivido mi scorre lungo la schiena. Ma si, si, questa è la realtà di tanti anni fa, ora ricordo: “quella mattina di giugno, il mucchio di erba secca e stretto tra le mani il rude bastone di legno di castagno, amico inseparabile di tante avventure, anche allora, imperversava un forte temporale che mi costrinse a fare una veloce corsa per trovare riparo sotto un secolare albero di quercia.



Il Maestro Carlo

Gli anni passano veloci come il vento di tramontana che nell’autunno del 1956, soffiava fredda e pungente, a Magliano frazione del Comune di Giuncugnano, dove Carlo Bartolomei, giovane insegnante elementare, era stato mandato a sostituire la collega Ernesta Cardellini, titolare delle classi quarta e quinta delle scuole locali. Erano tempi difficili, i mezzi di comunicazione sia pubblici che privati erano limitati e il “maestro Carlo”, così veniva bonariamente chiamato, dopo le ore di insegnamento, non potendo far rientro al suo paese Colognola, frazione di Piazza al Serchio, fu costretto a prendere una camera in affitto dalla famiglia Bertacchi, che gestiva una piccola attività commerciale di ristorazione e bar. Solo il sabato rientrava a casa, dove vivevano la moglie e una numerosa nidiata (non ricordo quanti fossero i figlioli, ma era stato molto attivo nel prolificare). Le giornate erano lunghe, non passavano mai, specialmente durante il periodo autunnale, quando la nebbia e la pioggia erano costanti per intere giornate. L’esuberante carattere del Bartolomei, cominciò a trovarsi stretto fra le mura della fredda e angusta stanza, la solitudine e la malinconia lo deprimevano giorno dopo giorno. Una sera mi trovavo nella bottega, dove il maestro scendeva per consumare la cena. Egli mi chiamò e con un sorriso molto convincente mi disse: «Mi è balenata un’idea, ma ho bisogno di collaborazione. Vorrei chiedere al Comune di tenere aperta l’aula scolastica nelle ore serali, dove, volontariamente, mi impegno a portare avanti un programma didattico, aperto a tutte le persone interessate, a passare una serata diversa e nello stesso tempo fare un po’ di cultura».
Mi fece capire che era importante raggiungere un discreto numero di partecipanti, per dare un certo rilievo al progetto. L’unica clausola impegnativa per i frequentatori, era quella di procurare la legna da ardere per mantenere accesa la stufa di terracotta che permetteva di riscaldare l’aula scolastica. Subito non gli diedi nessuna risposta, però, il giorno successivo, parlandone anche con degli amici, mi convinsi che era una proposta intelligente, da non lasciarsi scappare. Fu un passaparola generale e in poco tempo i banchi si riempirono e l’entusiasmo crebbe sera dopo sera. Il percorso cominciò con la lettura del libro Le mie Prigioni, di Silvio Pellico e continuò con altri classici: dai Promessi sposi, del Manzoni, a diversi canti della Divina Commedia, un accenno all’Orlando Furioso e tanti altri scrittori e poeti, fra i quali Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Ada Negri. Il percorso si concluse con la poesia Piemonte, di Giosuè Carducci. Durante quelle splendide serate, ogni tanto si faceva una piccola pausa per onorare le caldarroste o una manciata di noci e nocciole, portate a turno dai vari componenti del gruppo di lavoro. Sembrerà strano, ma quando arrivava il momento di chiudere la porta dell’aula per tornare a casa, vista l’ora tarda, eravamo tutti dispiaciuti. Questo sistema che il buon maestro Carlo, aveva creato per interrompere la sua monotonia, aveva anche offerto un’opportunità e un punto di riferimento a tutti coloro che vivevano in quegli sperduti paesi, privi di ogni mezzo di comunicazione, dove le notizie erano sempre vaghe e per sentito dire, o arrivavano con grande ritardo. Si viveva in un sistema a due velocità, isolati dal resto del mondo.
Per non interrompere il percorso e mantenere unito il gruppo da lui creato, il geniale maestro, ci coinvolse in un’altra bizzarra avventura, proponendoci di formare una piccola compagnia “filodrammatica”. Rimanemmo tutti senza fiato e senza risposta, non sapevamo neanche il significato della parola. Davanti al nostro silenzio non si scompose e abbozzò, invece, un mezzo sorriso; poi, sicuramente per non farci scoraggiare, disse: «Ragazzi è la cosa più semplice del mondo, basta imparare a memoria e ripetere quello che gli altri hanno scritto e poi immedesimarsi in quei personaggi». Guardandoci fissi negli occhi, continuò: «È vero, quello che stiamo facendo è un gioco, ma ricordate, la vita non è un gioco, con essa non si può scherzare, ci vuole fermezza, bisogna guardare sempre avanti, essere decisi e intraprendenti. Dovrete affrontare le varie situazioni tirando fuori tutto quello che sta dentro di voi, solo in questo modo riuscirete ad essere padroni di voi stessi. Per ottenere questi risultati, bisogna mantenere la calma, essere consapevoli di quello che si vuol fare, senza abbassare la testa o vergognarsi di fronte a nessuno, siamo tutti esseri umani, perciò soggetti anche a sbagliare».
Fece un momento di pausa e poi continuò: «Ritornando al nostro gioco, quando sarà il momento salirete sul palcoscenico a fronte alta ricordandovi che gli attori siete voi. Di fronte avrete una platea di parenti, amici e conoscenti che vi sembreranno giudici severi e imparziali. Ma non abbiate paura, perché, se lavorerete bene e con impegno come in questo momento, sono certo che sarà un successo. Lo presenteremo al pubblico verso la metà di gennaio e dunque, abbiamo circa un mese e mezzo davanti a noi, per fare le prove e memorizzare il copione. Anche questa è una sfida e so di avere davanti a me dei validi combattenti. Cosa ne pensate?»
Ancora un lungo silenzio, poi, ancora una volta, guardando il viso sorridente ma austero del maestro, la risposta fu positiva, e in coro rispondemmo: «Come vuole lei».
La sera seguente cominciò l’avventura e come la precedente, infervorò tutti, sia quelli che erano entrati a far parte dei personaggi sia quelli che coadiuvavano dietro le quinte. Entrò in campo, come suggeritore, un personaggio già erudito e conosciuto, Severino Reali, da anni organizzatore dei tradizionali e folcloristici  maggi. Ci consegnò un libretto e sempre col sorriso sulle labbra sottovoce mormorava: «Qui dentro c’è il nostro trionfo, tocca a voi portarlo avanti». Era un poemetto in due atti tratto da un brano del romanzo Addio alle Armi di Ernest Hemingway.
Lo spettacolo si concludeva, poi, con la classica farsa finale. L’esperienza teatrale cominciò, dapprima, come uno scherzo. Nessuno di noi ci credeva più di tanto, ma col passare del tempo, il dialogo si fece sempre più sciolto e ricco di piccoli particolari, imposti dalla regia del maestro, per rendere i personaggi più espressivi e più veri. Il suo volto era raggiante, pieno di gioia; molte volte il sabato sera non andava nemmeno a casa. Era così preso e soddisfatto del lavoro, che secondo lui procedeva alla perfezione, che sarebbe stato un sacrilegio non portarlo a termine.
Finalmente, l’ultima domenica di gennaio, con il cuore che batteva a mille e le gambe che tremavano come foglie al vento, si aprì il sipario del teatrino sito nel locale dell’asilo che si trovava nei pressi della chiesa parrocchiale di Sant’Andrea a Magliano e la rappresentazione ebbe inizio. Il primo impatto fu tremendo, ma la benevolenza del numeroso pubblico partecipante, che batteva le mani in continuazione, ci fece trovare la forza necessaria per portare a termine lo spettacolo.
Com’è consueto dire: «il paese è piccolo e la gente mormora», anche il nostro lavoro ebbe un esito positivo e con grande onore e immensa meraviglia, fummo invitati a rappresentare lo spettacolo nell’unico vero teatrino della zona, sito nel paese di Gragnana, frazione del comune di Piazza al Serchio e anche in questa circostanza, non mancarono gli applausi da parte della gremita platea. La mia avventura teatrale terminò pochi giorni dopo.
Il 18 febbraio la mia vita stava per prendere un nuovo corso, una nuova avventura stava per iniziare nell’Arma dei Carabinieri (potrebbe sembrare un paradosso: terminavo di far l’attore con Addio alle armi, per dar inizi alla nuova esperienza con… avvio alle armi). Cominciò per me un nuovo percorso, un nuovo metodo di come interpretare la vita. Le difficoltà si sovrapponevano ogni giorno, si presentarono nuovi scenari, momenti di grande responsabilità nei quali un errore poteva togliere ingiustamente la libertà ad altri. Incontri faccia a faccia con persone ed eventi drammatici in cui bisognava prontamente decidere, l‘indecisione poteva essere fatale. Proprio in quei momenti, mi riaffiorava alla mente il sorriso e lo sguardo imperativo del maestro Carlo. La reazione era immediata e scattava la determinazione e la consapevolezza di avere sotto controllo la situazione. Un “grazie” al maestro, per aver promosso quelle iniziative, piene di saggezza, positività e grande senso di umana comprensione, che ci hanno reso consapevoli che nella vita ci sono momenti di gioia e altri di dolore, ci sono le luci e le ombre che si rincorrono come le nubi portate dal vento e che il bene e il male non sono altro che la specularità dei comportamenti che ogni persona assume durante il breve cammino della vita



Le Rogazioni
Riti Pagani e Religiosi
Era già primavera inoltrata. La campagna era piena di fiori colorati   che emettevano nell’aria un intenso profumo. Era il venticinque aprile, festa di San Marco, di buon mattino, lungo le vie dei piccoli paesi si sentivano le voci ei contadini che andavano verso la chiesa di Sant’Andrea apostolo a Magliano per partecipare alla processione delle rogazioni maggiori.Si ripeteva la stessa cerimonia il lunedì, il martedì, ed il mercoledì  antecedente la festa dell’Ascensione, per partecipare alla processione delle rogazioni dette  minori.          
Erano riti antichissimi, che risalivano rispettivamente:
-             Le rogazioni maggiori furono trasformate in rito cristiano attorno agli anni 325-366 d.C. per volontà di Papa Gregorio I e si festeggiavano il 25 aprile;
-             quelle minori entrarono nella tradizione cristiana attorno agli anni 450-474 d.C. per volontà del vescovo Mamerto, e si festeggiano i primi giorni della settimana  prima dell’Ascensione.
Dopo aver celebrato la S. Messa, il parroco Don Emilio Barsotti, invitava i fedeli a predisporsi in fila per dare inizio alla tradizionale processione, così composta: lui in testa con i chierichetti, seguito dai confratelli, vestiti con una cappa bianca e una mantellina rossa, uno dei quali portava il crocefisso, altri i lanternoni e lo stendardo, di seguito le donne con i bambini, gli uomini chiudevano lo schieramento. Il suono delle campane annunciavano la partenza della lunga processione che si snodava lungo i tortuosi sentieri della campagna circostante, durante il tragitto, cantavano con profonda e convinta devozione, litanie ai Santi e altre preghiere propiziatorie,   
  Lungo il percorso, c’erano dei punti prestabiliti, segnati con una croce o altra immagine sacra, che per l’occasione i contadini avevano addobbato con freschi fiori di campo, il corteo si fermava.  Il sacerdote prendeva la croce, la alzava segnando i quattro punti cardinali, e poi cominciava a declamare le suppliche rivolte al Signore, in latino, aventi lo scopo di conservare e proteggere le campagne e i relativi raccolti, dalle inclemenze del tempo e dalle calamità naturali. Dicendo: “A fulgore et tempestate” (ovvero: dai fulmini e dalla tempesta) i fedeli, che si erano inginocchiati nella terra umida e piena di sassi, rispondevano: “Libera nos Domini” (ovvero: Liberaci o Signore).       
A quelle appena pronunciate, seguivano altre implorazioni: “A peste, fame et bello” (ovvero: dalla pestilenza, dalla fame e dalla guerra) e poi continuava con altre suppliche, in fine impartiva la benedizione delle terre circostanti. La processione, continuava seguendo il percorso, fino alla successiva stazione, lì veniva ripetuto il rito. Solo nella tarda mattinata la processione faceva rientro nella parrocchia da dove era partita.                 
La gente, rientrava nelle proprie abitazione stanca ma piena di entusiasmo, di speranza e profonda fede, confidando nel Signore e nel suo aiuto divino. Certa che le loro preghiere sarebbero state ascoltate da Dio e il raccolto, unica risorsa di sostentamento, sarebbe stato abbondante e protetto da intemperie e calamità naturali.
Ma ahimè, come si è verificato per molte altre tradizioni, con l’avvento del benessere, alla fine degli anni cinquanta, le rogazioni sono scomparse, spazzate via dal nuovo che imperversava. Sono rimasti, qua e là, i simboli della cristianità, piccole croci in legno ormai logoro dal tempo e l’eco ormai lontano dei canti e le preghiere che gente umile, piena di buona volontà e spirito di sacrificio intonavano con profonda e devota convinzione.



5 Aprile 1945

Un pallido sole illuminava la cima del Monte Grula, piccolo promontorio a ridosso del paese di Magliano e piano piano, si apprestava a scendere verso la valle, per poi raggiungere il caseggiato di Castelletto, ancora avvolto dall’ombra e ricoperto da una fredda e biancheggiante brinata. Il rumore dei passi e il cigolio del pavimento di tavole, destò il mio sonno: era mia madre che si avvicina alla finestra, e con molta prudenza, apriva il portello, come se stesse spiando qualcuno, poi delicatamente lo richiuse.
Le domandai perché non avesse aperto come di consueto, per fare entrare la luce del giorno e l’aria fresca, ma lei non mi rispose, mi guardò con gli occhi pieni di paura e col dito indice fece il segno di stare zitto, poi si fece il segno della croce mentre sottovoce recitava l’Ave Maria.
Preso dalla curiosità, aspettai che si allontanasse e poi corsi ad aprire la finestra, davanti a i miei occhi si presentò un insolito panorama. Sul cucuzzolo di fronte, sotto un grosso castagno, tre soldati sdraiati per terra, con l’elmetto in testa e a fianco una grossa mitragliatrice, con la quale dominavano l’intero paese e anche una vasta zona di campagna, compresa l’unica strada mulattiera che scendeva a zig zag dal paese di Magliano.
Non ebbi tempo di vedere altro perché la mano di mamma mi trascinò verso di sé stringendomi tra le braccia, dicendo: “Non aprire più quella finestra, è pericoloso!”
Era la prima volta che vedevo uno spettacolo del genere, rimasi senza fiato e sentii un brivido di freddo lungo la schiena e un forte tremore alle gambe.
Nel frattempo si erano svegliati anche gli altri due fratelli più piccoli. Mamma, ci prese per mano e senza esitare ci fece scendere la scala che portava nella cucina sottostante.
Intanto si sentivano le voci concitate dei militari tedeschi e italiani che facevano irruzione nelle abitazioni vicine, impartivano ordini imperativi, gridando: ”Raus! Raus! Partizan caput!”
Nelle misere case annerite dalla caligine e dal fumo, c’erano solo donne, vecchi e bambini che non capivano una parola, ma obbedivano agli ordini, seguendo i gesti che i soldati facevano con le mani.
Erano momenti imbarazzanti e carichi di paura. Intanto, il tempo passava e nei dintorni si sentivano gli spari delle pattuglie che stavano rastrellando la campagna circostante in cerca di eventuali persone nascoste. Sicuramente, qualcuno aveva informato il comando tedesco che in quei paesi della Garfagnana la resistenza partigiana attingeva viveri e consensi dalla popolazione.
Verso le ore otto e trenta, si venne a sapere che avevano ferito un giovane di Castelletto, poco più che diciottenne, si chiamava Pellegrino Lenzi e catturato altre due persone: Egidio Venchi e il cognato Bruno Bertolini. Questi ultimi erano nascosti in un rifugio appositamente costruito in un canalone nella località “Lazzon”, sulla sponda destra del torrente Piantanesa. Il rifugio era ben nascosto e protetto dalla folta vegetazione, ma venne trovato dai militari, a causa della scia di sangue lasciata da Pellegrino Lenzi che malgrado la grave ferita, voleva raggiungere quel rifugio. Nelle vicinanze, venne catturato anche mio padre, che di buonora si era recato al mulino, sito lungo le sponde del Canal Grosso, un modesto corso d’acqua che scende dalle alture vicino al paese di Ponteccio. Giunto in località la Bradia, appena fuori della folta vegetazione, spararono anche a lui, ma fortunatamente non lo colpirono, la pallottola perforò solo il sacco pieno di farina che aveva sulle spalle.
Dopo la cattura, fu portato con gli altri prigionieri, che nel frattempo erano stati concentrati in località Pornecchia, vicino al ponte dove il torrente Piantanesa si unisce al Canal Grosso.
I tre prigionieri e il ferito, furono fatti sedere su una vecchia macina da mulino, che da sempre era lì appoggiata a due grossi alberi di cerro vicino al greto della strada. (ora non c’è più, qualche mano lesta, l’ha fatta sparire) Successivamente furono condotti davanti al municipio di Magliano in attesa di un’altra destinazione. La cosa più urgente da fare sarebbe stato prendere in considerazione il ferito: aveva il torace trapassato da una pallottola e perdeva molto sangue, ma nessuno si preoccupava del suo stato di salute, come se nulla fosse lo trattavano come gli altri prigionieri pur vedendo che le sue condizioni si aggravavano minuto dopo minuto. Finalmente dopo una lunga attesa fu caricato su un mezzo militare e trasportato a Nicciano, dove il comando tedesco aveva allestito un piccolo ospedale, all’interno di un grosso caseggiato. Lì, fu consegnato ad un ufficiale medico tedesco che si dedicò alle cure del ferito e nonostante una serie di complicazioni, riuscì a salvargli la vita, mostrando grande deontologia professionale.
Tornando alla cattura di mio padre, qualche anno dopo, mi raccontò che riuscì a fuggire, convincendo il militare che li sorvegliava, un alpino della Monte Rosa, dicendogli che era necessario recarsi in paese per reperire un mezzo per trasportare il ferito all’ospedale. Era ben consapevole che nel paese non c’era la possibilità di trovare mezzi di trasporto, ma era l’unico tentativo per allontanarsi dal gruppetto, per poi tentare una rocambolesca fuga, che gli diede la possibilità di far perdere le sue tracce nascondendosi nei boschi circostanti.
Anche gli altri due prigionieri furono rilasciati, non ricordo se il giorno stesso o nei giorni successivi.
Ancora nella zona c’era fermento, il rastrellamento non era finito, la gente ormai conscia del comportamento che riservavano alle persone e alle cose, dopo aver fatto queste incursioni, si guardava negli occhi e pregava, supplicando il buon Dio di intervenire con tutta la sua divina potenza, per fermare la mano di coloro che, senza nessuna pietà commettevano atti inenarrabili. Ancora oggi vengono ricordati i paesi di Sant’Anna di Stazzema, Forno Volasco e Vinca, per le atrocità subite, e non basterebbe un quaderno per elencare tutte le altre località in cui avevano distrutto interi paesi e barbaramente trucidato centinaia di innocenti, che come unica colpa avevano quella di essere italiani, antifascisti e partigiani. Questo era il credo delle truppe tedesche e di quelle che dipendevano direttamente o indirettamente dai loro comandi.
 Gli ordini dovevano essere eseguiti alla lettera.
Vi garantisco che quei personaggi avevano recepito perfettamente le disposizioni, anzi, la cosa era stata recepita così bene che spesso, per rendere l’operazione più importante e spettacolare, aggiungevano gratuitamente atti efferati legati al loro fanatismo, cinico e schizofrenico. Purtroppo a pagare erano sempre persone innocenti senza colpa alcuna.
Alla fine del conflitto, i vincitori, non seppero, o forse non vollero placare la loro sete di vendetta e continuarono a macchiarsi di sangue, ponendo in essere azioni che con un briciolo di buon senso, avrebbero potuto evitare. Solo il tempo, riuscì ad affievolire la voglia di vendetta che si era radicata in questi personaggi che emettevano sentenze ed eseguivano condanne, secondo il loro credo politico. Con questo sistema furono atrocemente uccise altre centinaia di persone che giustamente o ingiustamente avevano portato avanti ideologie diverse. Con riferimento a Pellegrino Lenzi, che avevamo lasciato alle cure dell’ufficiale medico tedesco nell’Ospedale da campo di Nicciano, il quale secondo scienza e coscienza, riuscì a salvargli la vita, dopo circa due mesi fu dimesso. Purtroppo, la sofferenza continuò anche durante la convalescenza: una tromboflebite a entrambi gli arti inferiori, gli causò non poche sofferenze.  In seguito si innamorò di una giovane del paese, Ortensia Costabonucci e poco tempo dopo convolò a giuste nozze, continuando felicemente la sua vita nel piccolo e silenzioso paesello. Anche lui, fa parte di quei tanti “eroi senza nome”, che nel periodo bellico lavorarono nell’ombra, rischiando ogni giorno la propria vita per il bene del Paese.





LA SOLITUDUNE
Un’amica speciale



Giornate piene di malinconia, desiderio di comunicare, voglia di esprimere un pensiero, sentire una parola di conforto, bisogno di una carezza e di un sorriso. E’ il grande dilemma dell’esistenza umana. Dopo aver lavorato per lunghi anni a contatto con il frenetico e convulso sistema sempre in evoluzione, merito della tecnologia  globale, della scienza e l’ingegno umano. Si arriva al momento del fine rapporto, per limiti di età. E’ il preludio di un lungo giorno che sta per finire. Questo distacco se non preparato, porta in ognuno di noi, specialmente in quelli meno fortunati, che non hanno più una fonte dove attingere calore, trovare compagnia, rappresenta un punto di partenza per il nuovo e difficile percorso della nostra avventura su questo meraviglioso pianeta. Questo meccanismo purtroppo non sempre si attiva e molti cadono nel baratro della solitudine. Inizia una nuova vita, giornate lunghe che non finiscono mai. Notti insonni piene di ricordi ormai lontani. Dalla finestra osservo una stella che brilla più delle altre, mi attrae. Mi accorgo di non essere solo. La guardo intensamente, e con sorpresa vedo che comincia a pulsare. “Ciao, appartengo alla costellazione di “Andromeda” La conosci?” Si per sentito dire, io non sono uno studioso di astrologia, e... in quell’istante una scia luminosa attraversa la volta celeste. Peccato, era una stella cadente. Comunque è stato bello parlare con lei. Tranquillo non sono caduta sono scesa sulla terra, così potremo farci compagnia tutte le notti.  Uhuu ! Che meraviglia una stella sul davanzale della mia finestra. Un attimo di esitazione poi mi viene spontanea la domanda: E durante il giorno dove andrai ? Ho trovato alloggio nel parco, nella fontana dove ci sono delle splendide ninfee. Ah!.. ma, visto che sei qui, perché non resti da me? Ti offro un alloggio asciutto e pulito. Sai, l’acqua di quella fontana è molto sporca. Sei così bella e brillante che potresti  rovinare la tua livrea. Resta qui.  No devo andare. Non vedi che sta sorgendo il sole?  Apro gli  occhi e vedo la luce, è giorno. Ho ancora la testa confusa. Era tanto che non sognavo? Che strano? Però a pensarci bene sarebbe meraviglioso avere una stella come amica, quando viene la sera fare delle belle passeggiate nel parco in sua compagnia. Anche se il lampione è spento, hai sempre vicino chi ti illumina la strada. Poi addormentarsi sapendo che con te c’è un stella, che ti racconta tante storie come faceva la mamma. Sarebbe veramente un sogno meraviglioso. “Ciao sono qui. Mi aspettavi?”  “Sinceramente si. Però, se non sbaglio, sei in anticipo è ancora giorno?” Mi sorride, allunga la mano per levarmi un capello grigio che si era adagiato su una spalla.  Mi fa una carezza e con tanta tenerezza mi prende per un braccio.Vieni, andiamo la notte e lunga, avremo tanto tempo per parlare. Ci incamminiamo lungo il  viale alberato, dove una luce misteriosa illuminava  il  prato  circostante. C’era tanta gente che giocava, sorrideva era piena di gioia e felicità, una musica celestiale accompagnava il loro oblio. Anche la fontana aveva cambiato colore, l’acqua era limpida e cristallina. I fiori delle ninfee, sgargianti di colore e profumati. Là, infondo al viale, Il cielo si è tinto di rosso, gli ultimi raggi del sole si stanno immergendo nell’orizzonte. E’ un lungo giorno che muore, lasciando alle tenebre la sovranità e il mistero dell’universo e della vita.





Il Metato


La nebbia fitta, umida e maleodorante ha coperto l’intera valle, non si vede a due metri di distanza. Mossa dal vento, la nebbia, sale piano piano verso la montagna, seguita da una leggera pioggerellina, fredda e uggiosa. Da ogni parte si sente gocciolare, le foglie ormai appassite e appesantite dall’umidità, si staccano dai rami e scendono velocemente sul terreno bagnato e scivoloso. Il paese è completamente scomparso, le ombre, i rumori e le voci della gente che nonostante la nebbia, si appresta a preparare una buona colazione al gregge, costretto dal maltempo a rimanere nell’ovile, danno l’impressione di trovarsi in un luogo incantato, dove tutto si è fermato. In effetti dopo la raccolta delle castagne, che termina quasi alla fine dell’autunno, anche per gli abitanti dei paesi più estremi dell’alta Garfagnana, la vita diventa monotona e piatta. Oggi c’è la nebbia, domani la tramontana. La neve ha già imparruccato le cime delle Alpi Apuane e degli Appennini. Le attività sono ferme e le giornate diventano lunghe e noiose. Gli anziani si incontrano nel bar del paese, per fare una partita a carte.  E così, fra moccoli e un bicchiere di vino, trascorrono le ore pomeridiane. Un altro luogo dove si trascorrono molte ore, al riparo dal freddo dell’inverno garfagnino, è il seccatoio delle castagne, “il metato” che in questo periodo dell’anno, è in piena attività. E’ un ambiente abbastanza angusto e anche scomodo, però non avendo altro a disposizione, si fa buon viso a cattiva sorte. Per non annoiarsi, mantenere allegro l’ambiente e dare tono alle serate. Domenico metteva sul fuoco una padellata di castagne, era lui lo specialista, faceva delle caldarroste perfette cotte e croccanti al punto giusto. Gli altri ospiti si mettevano seduti a giro, intorno al grosso fuoco, ben controllato, che ardeva giorno e notte, sotto la cannicciata che sorregge le castagne da seccare; si parlava del più e del meno, cose di tutti i giorni, di tanto in tanto qualcuno, in particolare coloro che avevano già prestato il servizio militare e di conseguenza si erano resi conto che oltre l’orizzonte, fissato dalle cime dei monti  e delle Alpi Apuane, c’era ancora un mondo da esplorare. Per questo erano tutti entusiasti di raccontare, portare il loro piccolo contributo agli amici e conoscenti che non erano mai usciti dalla incantata valle Garfagnina. I personaggi si dividevano in più gruppi, c’erano i reduci del passato conflitto mondiale, che avevano alle spalle i ricordi tremendi di una guerra veramente vissuta, si leggeva nei loro occhi la tristezza, la rabbia e la paura. Il discorso diventava strozzato dal nodo che gli stringeva la gola, era il ricordo dei tanti compagni meno fortunati di loro, morti durante il percorso. A noi giovani piaceva ascoltare, questi racconti ci facevano sognare ad occhi aperti. Alvaro, ex bersagliere, era rimasto elettrico non perdeva attimo per far vedere la sua rapidità nei movimenti, parlava di Roma, dove il suo reparto era di stanza, esaltava la maestosità della metropoli, i suoi monumenti, le vestigia storiche. Diceva ragazzi cose dell’altro mondo, non avrei mai immaginato…che ne sapete voi? Oreste, artiglieria alpina con sede a  Bressanone, anche lui sciorinava le sue esperienze vissute, era un fiume in piena, si capiva dai gesti, dall’espressione e dall’enfasi, che dava ai suoi racconti. Bruno, Alpino della brigata Julia, reduce del fronte rosso, uno dei pochi sopravvissuti, ascoltava e annuiva, forse voleva dimenticare.  Poi, come in tutte le famiglie c’era sempre il conservatore, quello che le cose non le voleva cambiare, il nuovo gli metteva paura e…allora cercava di cambiare discorso mettendo in campo le solite storie, i soliti racconti ormai diventati leggenda. Con modo deciso e imperativo, diceva: “ragazzi ascoltate, ora vi racconto un episodio che non ho mai svelato a nessuno”. Tutti tacevano e Luigi comincia il suo racconto: “Eravamo alla fine dell’ottocento, io avevo 19 anni, conobbi una splendida ragazza nel paese di Gragnana e decisi di chiederle la mano, lei dopo un periodo di riflessione accettò la mia proposta e ci fidanzammo. L’unico problema era la distanza, allora non c’erano mezzi di locomozione, perciò bisognava camminare a piedi, ma voi sapete che l’amore non conosce confini, quindi senza esitare la sera partivo e andavo a trovarla. Quasi sempre facevo le ore piccole, l’una e delle volte anche le due di notte. Era il mese di Giugno, ricordo come se fosse ora, anche quella sera salutai Luisa e mi incamminai lungo il sentiero polveroso e dissestato che si snoda lungo le selve e i boschi fiancheggianti le rive del Canal Grosso, discreto corso d’acqua che scende dalle alture della Garfagnana.  Conoscevo a memoria quel percorso di circa sei chilometri, lo percorrevo due volte a settimana: il sabato e la domenica per ritornare a Castelletto. quella sera c’era una bellissima luna piena che illuminava a giorno tutta la vallata.  Arrivato a circa metà del percorso, dove c’era una grande selva di castagni secolari, che non consentivano ai raggi della luna di penetrare, fui avvicinato da un grosso cane lupo, ebbi un momento di timore, ma subito mi resi conto che era tranquillo, scodinzolava, si era avvicinato annusandomi e poi si mise a camminare al mio fianco. Dopo circa due chilometri, mi voltai e non lo vidi più. Tra me e me pensai che fosse tornato indietro. Comunque stava bene, era tranquillo, non sembrava spaventato. Sicuramente sarà stato di qualche pastore che aveva il gregge nei dintorni.  Mentre facevo tutte queste riflessioni, un forte boato e una lingua di fuoco uscì da un grosso albero che si trovava poco più avanti dove la strada cominciava a inerpicarsi, nel lato opposto della vallata. Il sangue mi si gelò nelle vene, le gambe cominciarono a tremare, non ero più in grado di andare avanti ero rimasto paralizzato.  Come in un sogno, dietro di me stava sopraggiungendo con passi assai decisi una persona che riconobbi immediatamente. Era il sig. Aristide un signore già in età avanzata, abitava vicino alla fontana del paese, in una modesta casetta. Ci salutammo e mi disse che era stato a trovare la figlia spostata con uno di San Michele, che aveva avuto problemi di salute. Avevo le gambe ancora legnose, i brividi di freddo correvano velocemente lungo la schiena, ma dicevo vivaddio se non arrivava lui io morivo dalla paura. E’ proprio vero Dio manda il freddo secondo i panni”. Ci fu un momento di pausa.  All’interno del seccatoio c’era un silenzio tombale, non si sentiva volare una mosca. Però la curiosità era tanta che qualcuno disse. E poi? Luigi riprese il racconto. “Arrivati all’altezza del cimitero ubicato a circa ottocento metri dal paese, Aristide mi salutò e si allontanò. Solo allora, mi sono ricordato che la casa di Aristide vicino alla fontana non c’era più, era stata distrutta dal terremoto del 1920, e quel vecchietto era deceduto molti anni prima, colpito da un fulmine proprio la dove l’avevo incontrato”. Tutti conoscevano quell’episodio, un caso assai strano, ma in montagna capita spesso. Si era riparato sotto un albero di castagno per non bagnarsi, dalla pioggia torrenziale causata da un temporale estivo. Purtroppo lo raggiunse un fulmine e lo folgorò. “Credetemi questa volta non mi sono bloccato, forse vedendo le case del paese li vicine, mi lanciai in quella direzione correndo come un forsennato. Raggiuta casa mia, entrai, non so neppure come feci, chiusi la porta e come  mi  trovavo, mi infilai sotto le coperte. Il giorno dopo avevo quaranta di febbre”. Si sentì una voce che proviene dall’angolo del seccatoio era Gerlando, che ironicamente disse: “Luigi, questa storia, l’ho già sentita raccontare tanti anni fa, da mio nonno, ti dico che a te è andata molto meglio, sei riuscito a metterti sotto le coperte, il tizio della storia che conosco io, fece la stessa cosa si mise a correre, ma arrivato alla fontana dovette fermarsi per lavarsi i pantaloni, li aveva riempiti e non ce la faceva più a correre”. Ci furono dei dissensi, delle piccole contestazioni, ma cessarono non appena Domenico annunciò che le caldarroste erano pronte. Luigi che in un primo momento aveva accusato il colpo, si riprese immediatamente e si mise a ridere, così nel seccatoio riprese la vita di sempre.  






L’apertura della Caccia
“incontro con l’aldilà”
 
Eravamo alla metà del secolo scorso, per i più giovani la guerra era un ricordo oramai superato ma la gente che l’aveva vissuta sentiva, ancora echeggiava l’eco degli spari e l’odore della cordite, che le armi automatiche avevano lasciato nell’aria. Tuttavia nell’alta Garfagnana si era ormai recuperata la tranquillità e il buonumore. La campagna verdeggiante e ricca di coltivazioni invogliava la selvaggina a nidificare e riprodursi, in ogni angolo si sentiva il canto delle tortore, delle averle e dei merli che furtivamente svolazzavano tra le fronde, lungo i piccoli corsi d’acqua, dove sotto grossi alberi di ciliegie selvatiche, c’erano i frutti ormai seccati dal sole. Era la fine di agosto e per gli appassionati di caccia, un momento di frenetica attesa. Già nei giorni antecedenti l’apertura della stagione venatoria, prevista per la prima domenica di settembre, con due amici, ci recammo sulle pendici del Monte Amiata, per controllare se le informazioni avute da un conoscente rispondevano a verità. Era una località situata a circa mille metri d’altitudine, sparse qua e là c’erano case coloniche completamente disabitate e logorate dal tempo, con porte e finestre rotte; i terreni, una volta coltivati, erano pieni di erbacce e rovi. Nella parte più esposta al sole, dove coltivavano la vigna, si vedevano i filari caduti e i tralci della vite vorticosamente ammassati e ogni tanto spuntava qualche grappolo d’uva in via di maturazione. Il silenzio regnava sovrano, sembrava di essere fuori dal mondo, ogni tanto un sussulto per il frullo improvviso di colorati fagiani o gruppetti di starne che fuggivano spaventati dalla nostra presenza. Era il luogo che ogni cacciatore sogna. Sabato due settembre, di buonora, eravamo già accampati davanti al vecchio casolare che avevamo scelto come postazione fissa per trascorrerci la notte. Il giorno fu lungo e pieno di strani accadimenti. Poiché, avevamo inserito nel pacchetto, anche una bella e ricca grigliata, era sott’inteso che uno di noi avrebbe dovuto sacrificare il pomeriggio per dedicarsi alla preparazione della  cena a base di salsicce e braciole di maiale. Chiaramente dovemmo tirare a sorte, poiché nessuno voleva rinunciare, sfortunatamente la pagliuzza più corta toccò a me, con un po’ di rammarico dovetti rassegnarmi. Feci una ricognizione di ciò che mi serviva, intanto preparai con delle pietre un rudimentale fornello in prossimità della scala che portava nella parte superiore del vecchio casolare, dove c’era la cucina e le camere da letto ormai in disuso, al piano terra, c’erano la stalla e il pollaio. Accesi il fuoco e in attesa che si formasse la brace, per dare inizio alla cottura del cibo, con la coda dell’occhio, vidi nel parapetto della scala, un fascio di rami di Cipresso, mi sembrò strano, visto che quella specie di vegetazione a quelle altitudini si trova raramente, comunque, li buttai nel fuoco, e immediatamente l’aria si impregnò dell’inconfondibile odore della resina. Rientrati gli amici, tutto procedeva liscio come l’olio, ma a metà cena, qualcosa di anormale accadde: sul montante della scala, c’era nuovamente un fascio di ramoscelli di Cipresso, su per giù uguale al precedente, ebbi un attimo di smarrimento, ma poiché in altre occasioni, erano già capitate strane situazioni, ho creduto che nel gruppo ci fosse il solito buontempone che faceva degli scherzi, di conseguenza non diedi peso alla cosa e presi di nuovo il gentile omaggio e lo rimisi sul fuoco come nulla fosse accaduto. Ormai l’oscurità si era impossessata del territorio, era giunto il momento di trovare uno spazio per riposare, i due amici si recarono al piano superiore e si distesero su un plaid che avevano messo sul tavolato, io presi posto nell’abitacolo della Renault4 parcheggiata lì vicino, sotto una grossa pianta di quercia. L’ansia era tanta e il sonno tardava ad arrivare. Verso la Mezzanotte, la luna, che sorse da dietro il monte, fece penetrare i suoi raggi attraverso i folti rami e mi colpirono nel viso facendomi sobbalzare. Proprio in quel preciso momento, sentii la voce degli amici che stavano sul pianerottolo della scala, asserendo di essere stati svegliati da strani rumori, in effetti, provenire dal canalone arrivava un forte rumore di motori. Così mi spostai verso il fossato per vedere se altri cacciatori fossero in arrivo, ma non si vedeva nulla, almeno i fari si dovevano vedere. Il rumore continuava, dava l’impressione che da un momento all’altro dovesse sbucare dal viottolo una Jeep o un altro mezzo simile. Poiché la strada era stretta e malridotta, pensai qualcuno è scivolato nel dirupo e ha bisogno d’aiuto, percorsi il sentiero fino in fondo era tutto normale, però il rumore persisteva con la stessa intensità. Nel frattempo si percepiva che l’alba era vicina, stava per scattare l’ora X, perciò il bailamme precedente passò in secondo piano. Cominciò la battuta di caccia fu veramente cospicua. Le sorprese e fatti strani continuarono a perseguitarci. Verso le undici ci fermammo all’ombra di un grosso faggio per riprendere fiato. Il caldo, l’ansia e la notte insonne, cominciavano a pesare sulla nostra resistenza fisica. Anche il setter un bellissimo esemplare di cinque anni  sentiva la stanchezza, si fermo un attimo vicino a noi e dopo aver fatto un bella bevuta di acqua fresca, comincio a gironzolare nel prato antistante e fu lì che ad un certo punto fece un guaito e poi si accasciò nell’erba secca, con il costato  completamente aperto, si vedevano gli organi interni pulsare. Senza dire parola, completamente inebetiti, lo fasciammo con un impermeabile di nylon e in tutta fretta ci dirigemmo verso il paese sottostante, dove fortunatamente trovammo un veterinario, che senza perdere tempo, dopo essersi assicurato, che non erano stati lesi organi vitali, si apprestò a chiudere la grossa ferita con vari punti di sutura. Nel contempo, ci tranquillizzò, dicendo che in breve tempo sarebbe ritornato normale. Mentre venivano prestate le cure allo sfortunato Setter, uscii dallo studio del veterinario e andai nell’attigua piazzetta, mi sedetti su una panchina. Lì di fronte c’era parcheggiata la Renaul4 Rossa, sul cofano, fanaticamente esposte tutte le prede catturate.  Poco più in là c’era un signore sull’ottantina, ben vestito, in testa un borsalino scuro e baffi alla Vittorio Emanuele, in dialetto toscano vernacolare, mi chiese.” Indo tu la catturata tutta questa popò di roba?” Non conoscendo il posto gli indicai pressappoco la zona, sentii che mormorava sottovoce, “sicuramente è la faggeta”, scosse la testa e continuava a guardarmi fisso con due occhietti furbi e pieni di mistero, poi continuò: “sai, lassù nella primavera del 1944, c’è stato l’inferno, i morti non si contavano, la resistenza partigiana e le truppe tedesche se le son date di santa ragione, mamma mia che disastro. Sai, dopo la guerra anche Don Gabriele è salito fin lassù a pregare e benedire quella terra insanguinata; ricordati che lì ci sono gli spetri, un ci va nessuno, apposta hai trovato tanta selvaggina”. Continuò guardarmi e col dito della mano destra puntato, esclamò: “Unciandà più”, quelli hanno bisogno di preghiere e tanto silenzio. Nel frattempo stavano arrivando gli amici col cane in braccio, aprirono lo sportello e lo adagiarono nel sedile posteriore, io non riuscivo a dire niente, le parole del vecchietto, mi avevano fatto ricordare che nella facciata della casa, c’era una grande lapide in marmo, con incisa una lunga lista di nomi, li avevo letti quando stavo preparando la grigliata, ma non mi ero reso conto. In quel preciso momento capii che forse qualcosa di sovrannaturale era accaduto, in quel territorio, di scatto mi girai, volevo saperne di più, ma il saggio vecchietto era sparito, mentre gli amici mi guardavano e non capivano cosa stesse succedendo, mi diressi verso la chiesa pensando di trovare l’arzilla figura dell’ottantenne all’interno, magari genuflesso intento a pregare, invece sulla porta incontrai un frate con la barba lunga, il saio abbastanza sgualcito, i capelli lunghi brizzolati, lo salutai e chiesi: “dentro c’è qualcuno?” La risposta fu: “no, serve qualcosa?” “Beh…cercavo un signore che poco fa era qui, stavamo parlando, mi sono girato e non c’era più, ho pensato che fosse venuto in chiesa”, gli diedi delle informazioni sull’aspetto, l’età il modo di esprimersi e…, non mi fece dire altro, abbozzo un sorriso, scosse la testa e disse: “ma lei sta bene? da dove viene?” I miei amici avevano seguito tutto il percorso e si avvicinarono dicendo: “non ci faccia caso stanotte ha dormito poco ha bisogno di riposo.” “No, no”, rispose il frate, “ha ragione!” Mi prese per mano e poco distante c’era la porta del piccolo cimitero del paese, mi indicò un grosso cipresso, sotto al quale c’era una lapide in marmo, mi avvicinai e vidi la foto un po’ sbiadita, rimasi folgorato, le gambe si fecero molli, il sudore scendeva freddo sulla schiena, era lui!  inconfondibile, il Borsalino, i baffi, lo sguardo penetrante e misterioso, “no, non ci voglio credere,” il frate mi batte con la mano sulla spalla destra e poi si allontanò lungo il vialetto. Uno degli amici che aveva seguito il percorso, forse anche lui aveva intuito, mi trascino via e mi fece salire sulla macchina. Subito dopo ci incamminammo verso la via del ritorno. Passò circa un’ora prima che qualcuno di noi aprisse bocca, poi cominciai a vuotare il sacco, non ce la facevo più, pensavo che si mettessero a ridere, invece ascoltavano in silenzio. Poi il più grande disse: “basta, basta non pensiamoci più, la battuta di caccia è stata veramente eccezionale, se siete d’accordo domenica ritorniamo, ora parliamo d’altro.” Io anche la notte successiva non chiusi occhio, avevo sempre davanti la figura di Aristide, così, c’era scritto sotto la foto. Gli anni sono passati, forse anche troppo in fretta, ma il ricordo è ancora vivo e pieno di mistero, sembra un sogno, o una delle solite storie, tramandate e raccontate dai nostri avi, durante le lunghe e fredde serate invernali. No, non è così, è un tassello che mi appartiene, mi ha fatto crescere e meditare. In ogni caso la domenica seguente e nessuna delle successive fino ad oggi, siamo ritornati in quel luogo pieno di storia e di profondo mistero.





La battuta di pesca



 Di buon mattino, sul pontile antistante il porto osservo il mare. C’è una nebbiolina intrigante, preludio di una giornata molto calda. Infatti è  il 14 agosto. Molta gente già prende posto sull’arenile davanti al maestoso grattacielo simbolo della città di Nettuno. Quasi, quasi vado a prendere un bel caffè al bar del porto, arriva  un profumino al quanto invitante. Mi siedo al primo tavolo e ordino. Intanto lo sguardo si ferma su un pescatore che poco distante sta lottando per recuperare un bel cefalo.    
- “Bella cattura. Complimenti”!
Mi guarda di sbieco poi, con fare un po’ guascone, mi dice: “Ma questa è roba da poco. Dovevi vedere ieri ho preso una spigola enorme, era lunga così”, e indica la lunghezza allargando le mani. Abbandonata la canna, comincia a raccontare con un tale entusiasmo che non si accorge di aver un altro pesce attaccato all’amo. Approfitto della momentanea interruzione e mi allontano. Il solito fanatico. Ha ragione il mio amico Alberto, quando dice che i cacciatori e i pescatori sono dei bugiardi incalliti, che a forza di raccontare frottole si immedesimano e ci credono anche loro. Intanto sulla banchina comincia a esserci un certo movimento, si sente il rullio delle eliche, il vociare dei marinai che preparano le barche per l’uscita in mare.
Belle imbarcazioni. Chissà quanto costeranno! C’è un veliero a due alberi che la fa da padrone, veramente imponente. Beato il suo proprietario! E con un pizzico di invidia mi incammino verso la macchina che avevo parcheggiato poco lontano.
Oggi gioco una schedina al Superenalotto. Se vinco mi faccio un regalo da mille e una notte. Intanto guardo un cabinato, “Canados” ormeggiato lungo la banchina del porto.
- “Ciao, che fai da queste parti”?    
Una voce interrompe il mio sogno ad occhi aperti.
- “Nulla, sono venuto a prendere un bel caffè e ora ritorno a casa, e Giulio  tu che ci fai qui”?
- “Oggi ho degli ospiti devo portarli a fare una battuta di pesca, però se vuoi nei giorni a venire possiamo andare anche io e te”.
- “Ok, bell’idea, poi ci sentiamo, ti  
a sentire. Oggi deve essere una giornata di quelle veramente calde. Io però, ora, compro il giornale, mi metto sul balcone fronte mare, dove c’è sempre un po’ d’aria fresca e fuori lascia pure che scotti. 
Certo l’invito di Giulio a fare una pescatina al largo non è niente male, speriamo che si ricordi. Squilla il telefonino. “Chi è”? Dice mia moglie. Sandro il mio amico di Roma. Facciamo una lunga chiacchierata, sempre parlando di pesca e di mare perché anche lui è un irriducibile. Io a dire il vero sono stato per tanto tempo neutrale. Non mi sono mai interessato alla pesca. Però negli ultimi anni, frequentando amici pescatori mi hanno contagiato. E ora, non appena si presenta l’occasione, parto per l’avventura. Ho molti amici con la barca e spesso facciamo delle uscite abbastanza fruttuose, ma sempre nei limiti. Nei giorni di Ferragosto, tra amici, parenti che sono venuti, a fare una visitina, la pesca si dimentica. Anzi con mio cognato cerchiamo di organizzare un fine settimana in montagna. Sembra abbiano già trovato dei bei funghi porcini, e sia io che lui, siamo appassionati cercatori e anche grandi mangiatori.
Il 22 agosto mi chiama l’amico Giulio. Alle sei del mattino successivo siamo già sul suo cabinato in direzione delle isole pontine. Ci fermiamo a circa otto miglia da Ponza, su un fondale frastagliato con delle profondità che variano da duecento a novecento metri. Il mare è calmo, non c’è alito di vento, a motore spento sembra di stare sospesi nell’aria, solo lo sciabordio dovuto al moto ondoso causato dalla barca, rompe il silenzio. Prepariamo le attrezzature. E dopo aver preso un caffè iniziamo la battuta. Caliamo i bolentini e aspettiamo. Ogni tanto una cattura e il tempo passa. Il sole comincia a tramontare, la giornata di pesca si sta concludendo. Facciamo l’ultima calata e poi, tiriamo i remi in barca e rientriamo. E che l’ultimo colpo sia quello veramente buono. Infatti dopo qualche istante la mia canna comincia a flettere con una violenza mai vista cerco di contrastare e piano piano recupero la lenza facendo un po’ di tira e molla in modo da stancare la preda. Sicuramente ho catturato qualche piccolo squalo, in queste zone capita spesso. Non finisco il concetto che la canna non si muove più, la lenza ha perso la trazione e si affloscia sull’acqua. Peccato!!  Si è staccato. Poteva essere un pezzo da mettere in mostra stasera al rientro. Invece…invece in quel preciso momento nello specchio d’acque antistante affiora una figura di colore scuro. Uno spettacolo degno di un filmato trasmesso dalla televisione. I nostri sguardi si incontrano e entrambi esclamiamo: “È un pesce”! Si. Si è un pesce. Una cernia di cinquantadue chili. Quella sera al porto è stato un trionfo. Tanti curiosi, qualcuno cercava di fare una foto. Era un trofeo importante, nei nostro mari non è facile fare catture del genere. La festa è durata fino a tardi. Io cercavo di mantenere un contegno disinvolto, freddo, non interessato per trasmettere il messaggio che una cattura del genera è del tutto naturale per me. Invece dentro di me avevo voglia di urlare, saltare farmi vedere, dire a tutti che ero l’autore di questa pesca miracolosa.
Immediatamente un pensiero mi assale: questa Cernia la devo far vedere al mio amico Alberto altrimenti non mi crederà mai.


La favolosa cattura : "La Cernia"









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